Pensieri... Sulla spiaggia di oggi... Di ieri

Inserisci qui il tuo testo...In quei mattini di ieri quando la sabbia era ancora fresca, andavo sempre con il mio babbo al vecchio molo, che oggi non c'è più. Al suo posto si trova sdraiata al sole una scogliera artificiale, costruita per difendere l'entrata del nuovo porto dalle correnti che trasportano la sabbia dal fondale del mare. Il vecchio molo per la sua fattezza mi ricordava un trampolino, proprio come quello delle piscine, che si allungava sul mare. Grazie ai suoi piloni in cemento che lo sorreggevano, rivestiti dal tempo di grandi cozze nere, lasciava intravedere la costa dietro di esso con il suo castello, seduto lassù guardiano del mare sottostante. A me trasmetteva l'immagine di un vecchio, che per difendersi un po' dal caldo nemico, se ne stava seduto sullo scoglio, con i piedi immersi in una bacinella piena di fresca acqua. Oggi quei grandi frangiflutti non permettono più di allungare lo sguardo su quella costa lontana. La vista è costretta a sbattere su quel nuovo muro.

A me piaceva molto guardare per ore le barchette di legno che rientravano nel vecchio porto, con le reti piene di pesce. Scuriosavo poi tra i retini di quei mattinieri pescatori che gettavano le lenze delle loro canne e le reti delle bilance nel profondo mare. Rimanevo incantato anche di fronte alla vecchia scavatrice arrugginita, intenta a dragare l'entrata del porto per portare via la sabbia in abbondanza, ostacolo alla normale circolazione delle barche.

A metà mattino ritornavamo al nostro ombrellone, dove la mia mamma mi aspettava per fare colazione. Mi attendevano delle fette di pane con sopra il pomodoro o la marmellata, che ai miei occhi, sembravano grandi quanto le tavole da windsurf. Io non volevo mangiare, un po' perché non avevo un grande appetito e poi ero tutto rapito dal gioco con il mio babbo e dalla grande voglia di entrare in acqua, per il rituale bagno. Se avessi mangiato sarei stato costretto ad aspettare che fossero passate le lunghissime tre ore imposte dalla mia mamma. Mi rammentava sempre, come una severa maestra impone la sua noiosa pesante lezione, che se non avessi aspettato almeno tre ore dal pasto, mi sarebbe venuta una congestione appena mi fossi bagnato la pancia con l'acqua. Sono sempre stato nel mezzo. Da una parte la mia mamma che mi voleva far mangiare per forza, perché gli altri bambini dei vicini ombrelloni erano molto più paffutelli di me e dall'altra il mare, le cui onde vedevo come se fossero le mani di una mitologica creatura azzurra. Queste si allungavano verso di me per afferrarmi e portarmi via con sé. Io, però, ero ancora tra le braccia della mia mamma e allora se ne ritornavano indietro. Poi tornavano verso di me, ma niente, ero ancora sequestrato da quella creatura. Scalciavo per liberarmi. Allora avanti con le sculacciate e le interminabili lacrime. Quelle drammatiche "tre ore" le ho sempre vissute come un incubo, rimanendomi dentro come una cicatrice. Oggi ormai quarantenne, anche se ho ingoiato un pezzo minuscolo di pane, aspetto sempre il prescritto intervallo, prima di farmi afferrare dall'azzurra creatura.

Non avevo molti amici con i quali giocare. Non sentivo la necessità di averne uno. Forse perché a me piaceva molto divertirmi solamente con il mio babbo. Afferrandomi per le gambe mi trascinava per la spiaggia, disegnandoci con il mio sedere una pista da corsa, con tanto di rettilinei e curve. Un enorme serpentone strisciante tra colline e pianure. Poi via alla gara con quei campioni del ciclismo racchiusi dentro il loro glorioso mondo rotolante. Si alternavano in una pazza corsa fino a raggiungere quella ciabatta infilata per ritta sulla sabbia, a rappresentarci il traguardo. Vincevo sempre io. L'estati passavano e le cose però iniziarono a cambiare. Non trionfavo più in tutte le gare, in alcune corse era il mio babbo a tagliare per primo il traguardo. Iniziavo a capire che nelle gare degli anni precedenti io dominavo sempre perché era il mio sfidante che, volutamente, rallentava la sua corsa per farmi vincere. Perché questo suo rinunciare alla vittoria? Perché anche se perdeva sempre, lui era comunque sorridente? La risposta a questi miei interrogativi è semplice. Ero un malato cronico di capricciosità. Un viziato inguaribile e un pazzo geloso dei suoi giocattoli. Si spiega tutto. Ecco perché giocavo sempre solo, oppure in compagnia del mio babbo! La verità è che, tale situazione non era frutto della mia volontà, ma della scelta degli altri bambini a non voler giocare con me una volta che questi mi avevano conosciuto bene. Per divertirmi dovevo allora accontentarmi di quello che mi organizzava il mio babbo, oppure di ciò che m'ideavo da solo, come costruire i castelli con la sabbia.



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